Intorno al mondo con Dicky - Aprire le finestre
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a cura di Ricardo Preve
APRIRE LE FINESTRE: UNO SGUARDO SU GLI ALTRI
Tempo fa discutevo con la
regista argentina Mercedes Garcia Guevara (parente lontana del famoso “Che”)
durante la produzione del nostro documentario sul nuovo tango argentino “Tango
/ Uno strano giro”, che abbiamo girato insieme nel 2003.
Ricordo mi disse che per lei i
film, documentari o fiction che fossero, erano come finestre, aperte sul mondo
degli altri: attraverso un film scrutavi nella vita, e nella storia di altri. In
questo modo i film possono servire come uno strumento di pace: è più facile
odiare qualcuno se non lo conosci, se per te l’altro non significa niente. Invece,
una volta che conosci le loro case, le loro famiglie, i loro amici, sai che cosa
mangiano… diventa più difficile ignorare che questi “altri” sono anche loro esseri
umani, e che, certo, meritano non solo di vivere, ma anche di essere felici.
Trovo che questa stessa idea
di “aprire le finestre” sia valida per giustificare l’importanza di imparare
per lo meno una lingua straniera, e vivere per un po’ di tempo all’estero.
Possibilmente, per entrambi, quando si è ancora giovani.
Per favore non pensate che io
sia uno snob. So benissimo di aver avuto una vita privilegiata, e che non tutti
si possono permettere di viaggiare, o neanche di studiare. Ma dico solo che per
quelli che ne hanno l’occasione, imparare per lo meno una lingua straniera, e
se possibile anche vivere nel paese in cui la si parla, conferisce a colui che
riesce a fare queste due cose un vantaggio importante nella vita.
Ricordo che quando arrivai
negli Stati Uniti dall’Argentina nel 1976, rimasi stupito dall’ignoranza
dell’americano medio in materia di geografia. Spesso mi succedeva di dire che
ero argentino, e di ricevere dal mio interlocutore qualche secondo di
imbarazzante silenzio, durante il quale costui cercava di piazzare il mio paese
nella mappa mondiale. Quando sembrava che ormai l’americano non avrebbe detto
più niente, all’improvviso tirava fuori qualche commento come: “Ah, si, è
vicino al Messico, giusto?” O “Li fa molto caldo, no?” O ancora “Si mangia
molto piccante da voi, vero?”
La risposta preferita però era
questa: “Argentina? Ah si, io sono andato a scuola con un ragazzo del
Guatemala. Aspetta, come si chiamava? … Ecco, Carlos. Si chiamava Carlos. Per caso
lo conosci?” Nei primi anni del mio soggiorno negli USA cercavo di spiegare che
il Guatemala è lontano dall’Argentina, e che ci sono tante persone in entrambi
i paesi che si chiamano Carlos. Poi, stufo di dover dare tante spiegazioni,
trovavo più conveniente fingere di pensare alla domanda per qualche secondo,
per poi rispondere “Carlos? No, non lo conosco.”
In questo contesto parlare
diverse lingue, ed avere un background internazionale mi permise di accedere
più facilmente a varie opportunità di lavoro. E lo stesso fu per i miei figli,
in quanto tutti e tre hanno si sono realizzati nella loro vita avvalendosi in
parte della loro conoscenza delle lingue, e delle loro esperienze
internazionali.
Ma questo non è il punto
centrale di quanto voglio dire. Trovo che ben più importante nodo della
questione sia il fatto che imparare una lingua, e vivere altrove, ti “sposta”
dalla zona di comfort e autocompiacimento che ci avvolge a tutti quando
rimaniamo fermi in un posto. Se non vivi mai altrove, ti abitui a pensare che
tutti sono come te, o dovrebbero esserlo. E se poi risulta - come risulta - che
non lo sono, questi “altri” ti sembrano strani, buffi o … pericolosi.
In Italia, al mio arrivo, qualche
anno fa ho trovato molta gente che si stupiva nello scoprire che io non avevo un
codice fiscale. Per gli uffici pubblici italiani ciò non è possibile, così come
per quegli degli USA è impossibile pensare che qualcuno non abbia un numero di
sicurezza sociale nordamericano.
Sembra una sciocchezza, un
dettaglio senza importanza, ma è il “Schwerpunkt”, come dicono i tedeschi, l’idea
principale del mio argomento: ti devi mettere nel posto degli altri, aprire una
finestra sulle loro vite, per coglierli davvero nella pienezza della loro
esistenza e del loro posto nel mondo.
Questo lo vedo anche a volte
quando, in coda ad un negozio o in un ufficio per fare una commissione in
qualche parte degli USA, sento davanti a me un immigrante che parla con un
nordamericano. Spesso, l’inglese dell’immigrante è grammaticamente corretto, ma
carico di un forte accento. Si riesce a capire quello che vuole dire, ma
bisogna ascoltare attivamente, con empatia e comprensione. E queste
caratteristiche sono più frequenti in quegli ascoltatori che ricordano quando a
loro volta si ritrovarono lontani da casa, a parlare a fatica un'altra lingua, nel
tentativo di farsi capire. Quando chi ascolta non riesce a prendere in
considerazione il fatto che gli altri possono avere una loro storia, o radici
diverse dalle loro, allora l’ascoltatore si chiude in guscio impermeabile alla
comprensione. E persino un semplice “Yes”, detto con un accento eccessivo,
viene respinto come non intelligibile.
A mio parere questa necessita
di ascoltarci, di attingere un sincero desiderio verso gli altri di capirli, è
il tema centrale del libro “Apeirogon” dello scrittore irlandese Colum McCann,
che noi Scompaginati abbiamo in lettura al momento.
Certamente se ne può criticare
la struttura narrativa, o altri aspetti stilistici dell’opera, ma io trovo che
“Apeirogon” metta in luce questa necessita di sentirci, di capirci, anche
attraverso barriere così forti quali quelle che possono esistere fra un
palestinese e un israeliano.
Quest’opera mi ha colpito molto,
ha parlato a qualcosa dentro di me, perché riscatta questa imperiosa necessità
che io trovo esista, in un mondo cosi pieno di conflitti, di aprire per lo meno
una piccola finestra sulla vita degli altri, di provare a capirci più nel
profondo. Per questo perdono a McCann alcune carenze dell’opera, già
accuratamente segnalate da lettori più qualificati di me a criticare la
letteratura. Proprio come un immigrante che parlucchia un italiano incompleto e
confuso, ma si esprime dal cuore, preferisco ascoltare il discorso imperfetto
di qualcuno “diverso”, che le precise espressioni di un altro che mi assomiglia
troppo. Imparo molto più da quello che da questo, e dopo tutto, che cosa è la
vita se non una serie apparentemente infinita ma numerabile di lezioni, proprio
come i lati infiniti ma numerabili di un apeirogon, o di un labirinto di Borges?
2
recensioni
Clelia
03 Mag 2021
Grazie Ricardo, le storie degli altri e le parole degli altri sono il più grande patrimonio, libero e collettivo.
Mario
02 Mag 2021
E' proprio vero quello che dici su come lo studio di una lingua straniera aiuti ad allargare la nostra mentalità! Ho sentito che in America alcuni educatori sono preoccupati proprio del fatto che le lingue straniere da loro sono studiate pochissimo (anche perchè chi parla l'inglese ha scarso bisogno, sul piano pratico, di imparare un'altra lingue). In Apeirogon c'è un riferimento molto chiaro a questo concetto nella storia di Bassam che in carcere decide di imparare l'ebraico.
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