Intorno al mondo con Dicky - Dal Vietnam alla Georgia - gli scompaginati

Vai ai contenuti

Intorno al mondo con Dicky - Dal Vietnam alla Georgia

RUBRICHE
a cura di Ricardo Preve
DAL VIETNAM ALLA GEORGIA
 
La violenza razzista prosegue
Il 16 marzo 1968, alle 8 del mattino, le colonne di soldati americani fecero ingresso nel villaggio vietnamita di My Lai. A comandare l’operazione era un capitano, Ernest Medina, nato a Springer nel New Mexico e di origine messicana.  
In un primo momento, gli abitanti del villaggio, che si approntavano a recarsi al mercato per la vendita dei loro raccolti, non si preoccuparono della presenza delle truppe della “Task Force Barker”, parte della 23esima divisione di fanteria “Americal” della US Army.  
Il massacro cominciò di colpo, senza preavviso. Prima un soldato colpì con la baionetta un uomo. Poi lo stesso soldato spinse un'altra persona in un pozzo, e ci buttò dentro una granata. Poco dopo, un gruppo di una ventina di donne e bambini che pregavano in ginocchio, bruciando incenso, furono assassinati con colpi di pistola alla testa. Un altro gruppo di quasi 80 persone fu portato ad un canale di irrigazione nei pressi del villaggio, e massacrato con le mitragliatrici. Le donne si gettavano sui loro bambini nel tentativo di salvarli. Ma i soldati, con feroce pazienza, aspettavano che i bimbi si alzassero da sotto i corpi delle madri, per ucciderli a loro volta.  
La violenza continuò durante tutta la giornata, interrotta unicamente verso le 11 del mattino per dar modo alle truppe, in un momento di distacco surreale, di consumare il pasto di metà giornata e poi riprendere la strage.  
Dei 14 ufficiali americani indagati da una commissione d’inchiesta solo uno, un tenente, fu ritenuto colpevole (ma solo di occultamento dei fatti, non del massacro in sé) e condannato a tre anni di arresti domiciliari. Il Capitano Medina fu ritenuto innocente, sebbene sei anni più tardi ammise di aver dichiarato il falso agli investigatori.
Oggi ci troviamo negli USA, 53 anni dopo i tristissimi eventi di My Lai, a rivivere l’orrore della violenza razzista. Il 15 Marzo, avevo scritto un post su Facebook denunciando il vandalismo subito dal proprietario di un ristorante asiatico, che si era ritrovato il fronte del suo locale imbrattato con insulti razzisti.
Avevo sentito la necessità di denunciare questa aggressione fatta di una serie di attacchi violentissimi contro persone di origine asiatica negli USA. Fra i casi più recenti quello di Vicha Ratanapakdee, un uomo tailandese di 84 anni che a gennaio era stato spinto per terra e ucciso a San Francisco. E nella città californiana di Oakland, tre persone di origine asiatiche, tra cui un uomo di 91 anni, erano state aggredite per strada e ferite. In entrambi i casi, le vittime stavano semplicemente passeggiando.
Ma le mie speranze che la violenza contro questa minoranza scemasse son andate deluse. Nell’anniversario di My Lai, questo scorso 16 Marzo, 8 persone tra cui 6 donne di origine asiatica sono state assassinate da un uomo bianco nei sobborghi di Atlanta, in Georgia.  
Sebbene non ci siano ancora prove concrete che si tratti di un crimine razzista, la comunità asiatica qui negli USA è in pieno allarme per questo continuo ripetersi di aggressioni nei loro confronti.
Viene da chiedersi quindi a cosa si debba questa escalation di ostilità da parte di tante persone nei confronti degli asiatici americani.
Certamente non si tratta di un fenomeno nuovo. Nel secolo XIX i primi immigranti cinesi in California, arrivati per lavorare alla costruzione delle ferrovie e nelle miniere d’oro, si trovarono costretti a vivere in quartieri ristretti (le famose “Chinatown”), impossibilitati a diventare cittadini americani, soggetti a tasse speciali, e oggetto di violenze: il 24 Ottobre 1871 una ventina di immigranti cinesi furono massacrati nelle strade di Los Angeles.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, è ben conosciuta la saga dei 120.000 cittadini americani e più, di origine giapponese, condotti nei campi di prigionia, e lì trattenuti sino alla fine del conflitto, solo per via delle loro origini, e non per atti o propaganda sovversiva nei confronti del governo degli Stati Uniti.
E allora se è vero che questa corrente nascosta, ma attiva, di ostilità verso gli asiatici era già da tempo parte della trama sociale americana, è necessario oggi essere chiari e chiamare le cose per il loro nome: il principale responsabile della crescita degli attacchi contro innocenti uomini, donne, e bambini solo in ragione del loro aspetto fisico, si chiama Donald Trump.
Durante la sua presidenza, Trump in numerose occasioni ha cercato di incolpare i cinesi per la pandemia mondiale. Usando espressioni come “Kung Flu” e “China virus”, Trump ha fomentato un clima di pregiudizio razzista e violenza contro la comunità asiatica americana.
Il ripetersi delle mancate condanne della violenza razzista nel paese (vedi il suo commento al momento all’assassinio di una donna in Virginia nel 2017 durante gli attacchi di suprematisti bianchi: c’erano “persone buone da ambo le parti”), hanno chiaramente gettato benzina sul fuoco generando nuovi attacchi.
Trump non è stato certamente il primo a incolpare “gli stranieri” di una crisi economica a livello nazionale: c’è stato anche Hitler con la sua gestione degli ebrei tedeschi durante l’ascesa al potere del partito nazista germanico.
Ma questo non vuol dire che dobbiamo tacere, e accettare questo nuovo massacro in Georgia come un fatto inevitabile. Opporsi a questo tipo di violenza, in modo chiaro e aperto, è un imperativo morale al quale devono aderire tutti quelli che credono che i diritti fondamentali vadano accordati a tutte le persone in una società, a prescindere dalle loro origini.
Tacere di fronte a queste stragi, è quello che ci impedisce di trarre un insegnamento dalla lunga storia di ingiustizie che collega un villaggio in Vietnam negli anni sessanta, con il più recente orrore nei sobborghi di Atlanta in Georgia.
2
recensioni
Mario
21 Mar 2021
Però a me piace anche ricordare l'equipaggio di quell'elicottero che pose fine al massacro minacciando i soldati con le armi di bordo. Come dice Valeria, gli anticorpi esistono. Certo se la politica diventa parte del problema anzichè cercare di risolverlo, non ne usciremo mai.
Valeria
21 Mar 2021
Ciao Dicky, trovo interessante leggere il tuo articolo assieme a quello che ha proposto Adriana nella sezione IN PRIMO PIANO. Mi sembra che gli anticorpi al razzismo ci siano comunque nella società americana, sebbene a tratti affetti da un'ipertrofia che li rende altrettanto inaccettabili quanto il virus del razzismo... Alla fine manca, mi sembra un pacato senso della misura e dell'accettazione dell'individuo, nella maggior vulnerabilità delle sue origini razziali come in quella delle sue intemperanze adolescenziali...
clicca sui titoli se vuoi leggere i servizi precedenti:
                VERSO UN NUOVO NEOREALISMO
     MALCOLM & MARIE
         DI TRADUZIONI E DOPPIAGGI


Gli Scompaginati - circolo di lettura - via assarotti 39 - genova ITALY
Gli Scompaginati - circolo di lettura via assarotti 39 - genova ITALY
Torna ai contenuti