Intorno al mondo con Dicky - Malcolm & Marie - gli scompaginati

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Intorno al mondo con Dicky - Malcolm & Marie

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a cura di Ricardo Preve
“Malcom e Marie”, è l'ultimo un film diretto da Sam Levinson: appena sbarcato su Netflix, che lo ha prodotto, ha diviso nettamente la critica.
Su un fronte Charles Bramesco, dalle colonne della rivista di cinema britannica Little White Lies, lo considera un "talkathon goffo e orribilmente esagerato", mentre per Empire il film è un "grandioso dramma sentimentale".
Ammetto di provare una certa simpatia verso Levinson e i suoi collaboratori, in quanto il film rappresenta un simbolo della capacità della cultura di combattere contro il Covid: è stato girato fra Giugno e Luglio 2020, in piena pandemia, con una troupe molto ridotta, e forti restrizioni sanitarie (quarantena, disinfezione del set, etc.) che hanno ovviamente reso molto difficili le riprese.
Non è la prima volta nella storia del cinema che problematiche esterne alle riprese, che comporterebbero ardue sfide per la creatività e la produttività di un progetto cinematografico, vengono sfruttate da un regista e da attori di talento per produrre qualcosa di bello e speciale.
Un mirabile esempio di ciò è il movimento neorealista italiano. Nell'Italia del dopoguerra, distrutta dai bombardamenti e dalle battaglie, un Vittorio de Sica seppe "vedere" un operaio romano fra le macerie, un bambino per strada che guardava le riprese del suo film, una bicicletta, e ci costruì un’opera d’arte che vinse un Oscar. La mancanza di pellicola, luci, e soldi non impedì che l’immaginazione di un regista italiano creasse un capolavoro dal nulla.
Levinson in questo film, a mio parere, non raggiunge le vette toccate da de Sica, ma non si merita neanche le dure critiche di cui sopra da parte di Bramesco.

Partiamo col dire che la fotografia (di Marcel Rev) è impeccabile. Per me è geniale che Levinson abbia deciso di girare il film in bianco e nero. La mancanza di colore nelle immagini, e il fatto che il film sia stato girato in pellicola 35 mm (e non in digitale), aggiunge una grana e una sensazione tattile ai fotogrammi che si combina benissimo con la schiettezza dei sentimenti proposta dal film.
Non so se questo sia un omaggio al neorealismo. Ma ho osservato per lo meno una sequenza d’immagini che suggerisce fortemente che Levinson debba essere un ammiratore della Nouvelle Vague, il movimento di cinema francese sorto negli anni 1950. Più o meno a 13 minuti dall’inizio cominciamo a vedere una serie d’inquadrature che si succedono a un ritmo sempre più accelerato, e sono accompagnate da una musica jazz a ritmo crescente, che diventa quasi frenetico nel momento in cui appare - in modo inaspettato perché cosi distante dal principio del film, e fugacemente - il titolo dell’opera. Tutti questi elementi vicini al surrealismo sono tipici del linguaggio della Nouvelle Vague.
Colpisce poi il disegno del set e dei costumi. Gli arredi interni dell'appartamento, con il bagno, la cucina, la stanza da letto, e il salotto (gli unici posti in cui é girato tutto il film, a parte qualche breve momento in giardino) ci costringono a concentrare la nostra attenzione sui protagonisti, in quanto (?) intuiamo subito che non ci saranno cambiamenti di luogo. La restrizione spaziale imposta da Levinson forza una introspezione narrativa.
Il vestito e la cravatta scura di John David Washington (il protagonista maschile di questo film che ha solo due personaggi), in contrasto con la sua camicia bianca, riflettono la dualità delle realtà bianconere del mondo del cinema al quale il personaggio appartiene. Ma al tempo stesso la personalità abbastanza tipica di un uomo che vede tutto senza sfumature.
Al contrario, la protagonista femminile, Zendaya, appare vestita in un abito da sera che nella pellicola bianconera si assesta sui toni grigi , e col progredire del film indossa magliette o vesti di colori soavi e sfumati, come la sua personalità cambiante che non sembra mai stabilizzarsi in qualcosa di ben definito.

Da notare anche come ambedue, lungo lo sviluppo della storia, si spoglino dei vestiti con i quali li vediamo al principio del film, sino a rimanere in mutande o pigiami. Questo espediente suggerisce il trascorrere delle ore durante l’unica notte nella quale si svolge l'azione, ma anche, in senso metaforico, il denudarsi sul piano emotivo dei due protagonisti, Zendaya e Washington, che schiudono reciprocamente pensieri e sentimenti. Insomma l'intensificarsi dell'intimità emotiva è scandita dal progressivo alleggerirsi degli abiti.
I puristi del cinema segnalano sempre che alcuni dei più importanti capolavori appartengono ai tempi del cinema muto. Questo per suggerire (giustamente) che il cinema è un’arte visiva, e che i dialoghi possono completare le immagini del racconto, ma non sostituirle. L’ipotesi di base nel cinema è che un film con troppi dialoghi non abbia valore artistico.
“Malcom e Marie” è un film pieno di dialoghi. Ma questo parlarsi fra i due protagonisti riflette la realtà del mondo in cui oggi siamo costretti a vivere: col Covid facciamo molto meno, e parliamo molto di più. Infine a mio parere le interpretazioni di Zendaya e Washington sono eccellenti, e da sole meritano un apprezzamento positivo per questa delicata e intelligente opera d’arte. Insomma il talento degli attori e le scelte artistiche fatte da Levinson, rendono questo film, a mio parere, senz'altro imperdibile.


6
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Valeria
02 Mar 2021
Caro Mario, dissento! devi assolutamente vederlo fino in fondo. Forse a buon diritto ti sono sembrati fasulli i dialoghi dei primi venti minuti: un po' sopra le righe, scontati, ma tali sono secondo me nel preciso disegno del regista. Perché è con gradualità che Levinson lascia che la protagonista si apra: è lei a tessere il ritmo del film, a modificarne via via l'umore, nel suo, rompere il silenzio iniziale, nell'oscillare poi tra rancore e perdono, tra rabbia e desiderio di complicità, fino a scoperchiare il dolore più profondo e acuto. E tutto questo in un percorso lineare,  ma fatto di battute di arresto e di slanci, perché di volta in volta è solo la disponibilità del partner a seguirla che le consente, o meglio consente ad entrambi, di sbrogliare sempre più a fondo la matassa interiore di un vissuto doloroso. Insomma la fotografia, col suo bianco e nero asciutto ma incisivo, è spettacolare, ma io credo proprio che testi e intreccio non sfigurerebbero neanche a teatro. Grazie Dicky per la segnalazione!
Mario
01 Mar 2021
Mi è venuta subito una gran curiosità, e sono andato a vedermi i primi venti minuti del film. Lo finirò più tardi, ma mi sento già di azzardare un'ipotesi: le valutazioni contrastanti probabilmente dipendono da quale aspetto del film sia più importante per il critico. Da un lato c'è il valore strettamente visivo dell'opera, che come dici tu è assolutamente strepitoso. Dall'altro lato c'è la parola: e qui secondo me cominciano i guai. Non so perchè, ma i dialoghi, per bravi che siano gli attori, mi suonano sempre un po' "fasulli". Io la penso come te, quando un film è una gioia per gli occhi come questo (i giochi di luce dei fari in lontananza dell'auto che si avvicina nella prima scena valgono da soli il prezzo del biglietto) si può passare sopra qualche difetto di dialogo, considerato che non puoi sempre avere Igmar Bergman! Ma capisco che tanta gente la pensi in maniera diversa.
Valeria
28 Feb 2021
Grazie Dicky d'avere messo a servizio degli Scompaginati anche in veste di critico le tue competenze cinematografiche! È bello essere guidati attraverso dettagli che a noi sfuggirebbero. E a proposito di bianco e nero, che ne dici di Roma? (l'ho già visto due volte e l'ho trovato splendido, fotografia inclusa)
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Gli Scompaginati - circolo di lettura - via assarotti 39 - genova ITALY
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