Due cugine in Sudafrica - 2
SPECIALS
Deludente, no? Anche se di per sé il Waterfront deludente non è, con i suoi bei ristoranti, caffè e negozi, come quelli ricchi di oggetti per i safari (cappelli, borse e quant’altro) in cui Valeria ed io abbiamo iniziato a sognare quello che ci attendeva di lì a pochi giorni. Ed incluso anche uno splendido Museo d’arte africana, lo Zeitz MOCAA, dove abbiamo avuto la fortuna di trovare la maggiore retrospettiva finora allestita di William Kentridge.
Non ricordavo in effetti che questo artista fosse sudafricano, tanto siamo ormai abituati a considerare questi grandi non appartenenti a una qualche nazione, ma piuttosto cittadini del mondo…, anche del nostro piccolo mondo. Ma tant’è, Kentridge è di Johannesburg, e a vedere la sua mostra, dagli strepitosi disegni a carboncino ai tanti video, si mostra subito figlio del paese che negli ultimi decenni, e come pochi altri sul pianeta, ha combattuto fieramente e ahimè a tratti anche molto drammaticamente, per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Nelle sue opere più recenti Kentridge connota questi ideali di una contemporaneità bruciante, e questo grazie non solo ai materiali (è ovvio che il video, suo medium preferito, si presta molto) ma alla loro presentazione in un formato installativo. Quando ci si trova quasi circondati dalle immagini proiettate in un continuum su più canali, quando il realismo della cronaca si fa allegoria con inserimenti grafici di vario tipo, quando il montaggio è incalzante, ti senti dentro la
storia, e non solo quella del SudAfrica, ma quella di tutti noi. Di per sé lo Zeitz MOCAA è anche un edificio assai intrigante: nella corte interna era visibile un arazzo di El Anatsui: composto da una sorta di scaglie di vario formato che formavano grandi campiture di colore, e appeso proprio sotto il tetto, scendeva giù a terra per ben quattro piani. La mia sensazione di fronte a tutto ciò è stato di stare penetrando un po’ nel cuore di questo paese a me ignoto, e mi sono sentita intimidita e sgomenta, nell’ansia di non capire tutto ciò che aveva nutrito opere assai diverse da quelle che a noi sono familiari dalla infanzia: qui colori violenti, materiali (paglie, plastiche) che ti chiedono di toccarli (e non puoi), tutti segnali per me di una cultura attraente ma davvero misteriosa. Dico subito che il resto del viaggio (due abbondanti settimane) non avrebbe dato risposte esaurienti a tanti degli interrogativi che mi sembravano aleggiare allo Zeitz: come si sono integrate, se lo hanno fatto, la cultura di questo con le tante culture del continente africano, e che è accaduto rispetto alle culture dell’Europa, o agli Stati Uniti? Colonialismo e postcolonialismo pongono questioni così complesse che mi sono sentita impotente e priva di strumenti adeguati rispetto alla realtà sudafricana. Insomma, una “turista”, con tutto ciò che nel bene e nel male, nella innocente curiosità e alla non meno innocente ignoranza a questo può accompagnarsi. Straordinariamente proprio allo Zeitz abbiamo incontrato una scompaginata, Marta, con Giulia, Bea, Paolo e Giovanni, un’allegra brigata con cui abbiamo condiviso una cenetta in un ristorante dalle pareti coloratissime.
Quanto ama le salse piccanti la cucina di Cape Town! NEXT